Ho visto questo film meraviglioso.
THE QUIET GIRL
Bello in sé, come opera cinematografica, ma anche uno stupendo trattato di pedagogia che svela qualcosa sull’educazione a ogni scena.
Vorrei dire mille cose, ma almeno poche voglio appuntarle qui.
Càit, con un nome che suona così simile al suo essere una quiet girl, è una bambina di nove anni che nasconde nel silenzio e nelle fughe lo sconcerto di essere una figlia non amata e una sorella indesiderata.
I suoi genitori, per liberarsi di lei, la mandano a casa di parenti lontani e quasi sconosciuti.
In quella casa occupa la stanza e il posto di un figlio morto anni prima.
Eppure questa coppia di genitori senza figli smette presto di vestire Càit con i panni dismessi di quel figlio che non c’è più e inizia ad amarla esattamente nello spazio che lei concede di sé: il silenzio.
Non cercano di curare le sue ferite parlando al posto suo laddove a lei mancano le parole, ma riempiono il vuoto di cura che si porta dentro con un silenzio pieno di piccole attenzioni, tanto più potenti quanto più non sono coperte da rumore inutile.
L’uomo che la accoglie in casa, apparentemente così distaccato perché altrettanto taciturno, sarà proprio per questo il primo a capire che lei “dice solo ciò che ha bisogno di dire”
E nell’unica lezione che sceglie di impartirle con la voce le dice ciò che lei già sa: “fai tesoro delle parole, troppe persone non hanno taciuto quando era il momento e hanno pagato un prezzo molto alto”
È lui il primo a capirlo perché è come lei e a quel suo essere silenziosa dà un valore che nessuno le ha mai riconosciuto prima.
Troppe volte crediamo che educare sia trasformare l’altro, sovvertire l’organizzazione che si è dato per sopravvivere al dolore, come fosse un sintomo da eliminare, quando invece spesso è proprio quell’organizzazione ad averlo salvato e a rappresentare il terreno più fertile per un incontro che nutre.
La donna invece, che ha perso un figlio annegato, trova proprio grazie all’acqua il modo di far sentire amata chi non ha mai ricevuto cura.
Quel primo bagno, quando la bambina arriva a casa sua tutta sporca, il loro bere al pozzo e quel piccolo segreto sull’acqua magica, sono il simbolo di una donna che ha visto la morte ma è ancora capace di generare vita. Che sa usare le proprie esperienze, persino le più drammatiche, per aprirsi a una relazione che insegna.
E poi c’è il tempo da trascorrere insieme, che è indefinito nel film così come è indefinibile nella vita.
Come educatori siamo in prestito e abbiamo in prestito chi ci viene affidato.
Non sappiamo quasi nulla delle famiglie di coloro di cui occupiamo e a volte quello che sappiamo o crediamo di sapere non ci piace o non possiamo cambiarlo, ma ciò che sappiamo insegnare resterà oltre la nostra relazione.
Quando Càit si trova stretta tra le braccia dell’uomo che non vuole lasciare, mentre suo padre sopraggiunge, dice una sola parola “papà”
Perché è in quel momento, quando si trova in mezzo tra due padri, che comprende una cosa che non dimenticherà più: cos’è un padre.
Anche se deve lasciarlo andare.
Ed è da quel momento che potrà riconoscere un amore paterno quando lo rincontrerà nella sua vita.
Allo stesso modo sono educative le promesse.
Quanta fiducia serve nell’altro per fargli una promessa che andrà oltre noi?
La donna che si prende cura di Càit al posto di sua madre, dopo quel primo bagno, le promette che quando arriveranno a mille colpi di spazzola i suoi capelli saranno come quelli di una principessa.
Lo dice proprio a lei che ha vissuto la vita di Cenerentola.
E iniziano a contare.
Arrivano solo fino a cento nel tempo che gli è dato di stare insieme, ma dal cento in poi la bambina saprà cosa dovrà cercare perché quella promessa si compia.
E insomma, consiglio questo film a chiunque educa qualcun altro e a chiunque ha avuto fame d’amore qualche volta nella vita.
[ Simona ]
PS: Il fil è tratto dal libro Forster di Clair Keegan
