“Conto fino a tre…”
Quanti genitori avranno pronunciato questa frase almeno una volta nella vita? Suona come un monito, una minaccia che dovrebbe spaventare i bambini e sollecitarli a fare o non fare qualcosa, ma nella testa di un papà e di una mamma che la pronunciano sono certa aleggi l’horror vacui di chi si chiede “e se arrivo fino a quattro che faccio?”
I genitori di quelli che oggi sono bambini sono stati probabilmente l’ultima generazione di figli per cui era “naturale” ascoltare. Fino agli anni ottanta tendenzialmente mamma e papà stabilivano tempi e modalità, i figli si adeguavano e il margine di contrattazione era limitato; anche quando disobbedivano lo facevano in opposizione a un’autorità che talvolta non andava troppo per il sottile e non con l’idea di avere realmente voce in capitolo.
Come genitori invece sono fortemente concentrati sulla relazione con i figli e si interrogano quotidianamente sulle ricadute che i loro comportamenti hanno o avranno sul rapporto che li lega.
La paura di sbagliare, il senso di colpa e il timore di ferire la sensibilità dei bambini hanno reso le nuove mamme e i nuovi papà molto più attenti verso di loro, autocritici e disponibili alla mediazione, a volte a discapito della capacità di farsi ascoltare.
I genitori oggi sono chiamati ad essere una giusta guida, spesso tirati per le orecchie dalle istituzioni che lamentano una mancanza di educazione delle nuove generazioni, e al tempo stesso viene chiesto loro di essere accoglienti e di rendere i bambini protagonisti del loro processo di crescita.
Tutto questo nell’epoca dell’efficienza a tutti i costi, della velocità di pensiero e del multitasking spinto. Roba che se si dovessero fare delle selezioni a priori per capire chi è in grado di rispondere a tutto questo e quindi di fare figli l’umanità si estinguerebbe nel giro di breve.
Nella presunta diatriba tra famiglia normativa e famiglia affettiva c’è la grande sfida dei genitori di oggi che possono preservare la capacità empatica che hanno conquistato senza perdere quella di essere una guida autorevole. In pratica riuscire a farsi ascoltare sapendo ascoltare.
Non sembra facile nemmeno a dirlo.
Un genitore sufficientemente vicino e presente al figlio è il massimo esperto su di lui/lei, o meglio, ci sono persone certamente più competenti su alcune questioni che possono dare rimandi puntuali nei loro ambiti (insegnanti, educatori, pediatri etc.) e con i quali è fondamentale cercare alleanza, ma ciò su cui un genitore è esperto è la capacità di leggere i comportamenti al di là di quello che concretamente succede ed è proprio qui che sta il nocciolo dell’educazione: nella possibilità di agire sui comportamenti per entrare in contatto con i processi mentali ed emotivi che stanno alla base di essi.
L’educazione è ciò che resta di una relazione.
L’interpretazione che diamo alle situazioni modifica il modo in cui le affrontiamo per questo è fondamentale sviluppare una capacità di analisi nel momento in cui ci troviamo in difficoltà nel farci ascoltare.
Farsi le giuste domande significa sapere dove andare a cercare le risposte e quindi riuscire a trovarle.
Questo viene spontaneo con i bambini quando sono molto piccoli e ci si interroga sul perché dei loro comportamenti ma si tende a perdere questa sensibilità mano a mano che crescono, ci si aspetta obbedienza pressoché incondizionata e si fa più fatica ad indagare i motivi per cui a volte le cose non funzionano.
Come genitori si conta fino a tre per far capire che il limite è stato raggiunto, per concedere il tempo di convincersi a fare o a smettere di fare… o almeno è quello che ci si dice. In realtà spesso si conta fino a tre per darsi il tempo di pensare “e se arrivo a quattro cosa succede?”
Quando un genitore è in difficoltà dovrebbe dunque prendersi quei tre secondi di tempo per capire non tanto come farsi ascoltare ma cosa è giusto fare quando non ascoltano.
La differenza non è di poco conto perché se è impossibile evitare che i figli talvolta o spesso non ascoltino – e convinciamoci che è impossibile perché fa parte del processo di crescita e di maturazione – è invece possibile fare in modo che i figli imparino qualcosa dall’esperienza di non aver ascoltato e che i genitori imparino molto dalla frustrazione di non essere ascoltati.
L’errore non è un fallimento quando diventa evolutivo ma diventa evolutivo o meno in base a ciò che decidiamo di fare nel momento esatto in cui contiamo il quattro.
* Simona *