Chiedere la riapertura delle scuole è educativo?

Insegnare qualcosa escludendo i bambini dal luogo deputato all’apprendimento è un paradosso impossibile?

La vita dei nostri bambini e ragazzi è oggettivamente diversa in questi giorni. Per quanto si cerchi di non metterli in allarme loro vivono nella quotidianità l’assenza della scuola, degli allenamenti, dei corsi e della maggior parte di quello che di solito scandisce le loro giornate e ogni famiglia che vive nella cosiddetta zona gialla si sta barcamenando per gestire questo improvviso buco di accudimento dei figli.
Un quadro non certo ottimale.

A pochi giorni dall’inizio dell’epidemia di Covid-19 in Italia non è ancora chiaro quale sia il giusto dosaggio di allarmismo e di prudenza perché è difficile prevedere con esattezza come si evolveranno le cose e perché gli stessi uomini e donne di scienza esprimono talvolta posizioni diverse.

Nell’attesa che la situazione si chiarisca tutti viviamo in questo stato di incertezza con le ricadute del caso, per ciascuno diverse.

Non si sa ancora se e quali attività ripartiranno la prossima settimana e Daniele Novara ha pubblicato sul sito del CPP un appello per la riapertura delle scuole.

E’ corretto che un pedagogista segnali le ricadute che una certa situazione può avere sui minori ed è coerente che metta in guardia  sugli effetti negativi del suo protrarsi.

Ci chiediamo quanto sia lecito invece che un esperto di educazione possa soppesare questi rischi in confronto a quelli che hanno portato alla chiusura degli istituti che sono di ordine medico-sociale e non pedagogico e sbilanciarsi su un piatto della bilancia o l’altro.

Fino a qui sarebbe una questione che riguarda chi ha scritto l’appello e le persone che a vario titolo stanno prendendo la stessa posizione; sarebbe una questione che riguarda soltanto la responsabilità di esporsi e fare richieste dal proprio punto di osservazione, se non fosse che in quanto parere autorevole hanno un peso e una ricaduta, quelle di Novara così come altre simili che ci hanno spinto a una riflessione.

Ci occupiamo anche noi di educazione e dal momento in cui ci è stata imposta la chiusura per decreto ci interroghiamo su una questione: cosa possono imparare i bambini da questa situazione?

Le risposte che ci siamo date e che abbiamo condiviso nei giorni scorsi sono varie ma hanno un minimo comune denominatore. Gli apprendimenti possibili sono tutti veicolati dall’unico filtro che hanno i bambini in questo momento: i loro adulti di riferimento.

In un clima di caos in cui noi adulti ascoltiamo tutto e il contrario di tutto è normale che esercitiamo il nostro senso critico e ci facciamo un’idea, è anche lecito pensare di avere voce in capitolo come membri della società ma pur informandoci molto non cambierà un dato: non siamo esperti epidemiologi, né politici o amministratori. Questo è il motivo per cui le decisioni non vengono prese da noi e si spera nemmeno in base al nostro parere ma a criteri quanto più possibile oggettivi e scientifici.

Quante volte abbiamo ascoltato i pedagogisti raccomandarci di insegnare ai nostri figli a fidarsi degli adulti?
Quante volte abbiamo spiegato ai nostri bambini e ragazzi che quando si trovano in situazioni critiche devono “rivolgersi alla maestra” o “parlarne con mamma e papà” o “andare dallo psicologo”?

Lo abbiamo fatto nella convinzione che l’esperienza, la competenza e la responsabilità che un adulto impiega nel prendere le decisioni che li riguardano siano di tutela per dei minori svantaggiati dall’inesperienza e per questo esposti a potenziali “pericoli” nel caso in cui decidano di fare di testa loro in situazioni per cui non hanno sufficienti strumenti.

Ebbene, ora noi siamo i bambini e medici e amministratori sono i nostri adulti di riferimento.

Di fronte alle loro decisioni potremmo limitarci ad avere dei dubbi, magari chiedere chiarimenti e nel frattempo affidarci, invece polemizziamo e scalciamo come adolescenti ribelli e ci lamentiamo della nostra situazione privata laddove evidentemente il problema è di ordine collettivo.
Tutto questo presumibilmente dentro le case, davanti a quei minori che crediamo di proteggere opponendoci alle imposizioni ma che alla fine esponiamo solo a sfiducia e dubbi ulteriori, come non ne respirassero già abbastanza.

In questo frangente non possiamo decidere quasi nulla per i bambini di cui ci occupiamo se non la cosa più importante: l’esempio che vogliamo dare loro.

Se la lucidità nelle situazioni difficili e l’ordine pubblico con le competenze, i ruoli e le gerarchie che ne derivano, se queste cose sono un valore è bene che ce ne ricordiamo anche quando ci mettono in una posizione scomoda.

Se ci tocca stare seduti di traverso possiamo decidere di preoccuparci prima di tutto di far capire ai bambini e alle bambine perché questo ci viene chiesto e poi come possiamo viverlo al meglio insieme a loro.

Ci riesce difficile immaginare che puntare i piedi sia un buon modo di farlo.

La casa sull’albero
Simona Felice, pedagogista

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